Sandro Frera blog dal 2006

pittura, letteratura, cinema e altro

Il senso del viaggio: parte sedicesima

  • Turisti e vagabondi

Contemporaneo agli anni del Romanticismo, quando il nodo che legava il viaggio ad uno scopo ben determinato ( commercio, scoperte, ecc.)  comincia ad allentarsi, nasce il viaggio collettivo. La rivoluzione borghese, prima (come spinta verso una coscienza di libertà) e in secondo luogo la rivoluzione industriale, aprono la strada al turismo. Nei primi anni dell’ Ottocento cominciamo a trovare una sorta di “uniformità”, sia politica, sociale, che uniformità dello spazio: omogeneizzazione resa possibile dalla nuova tecnica industriale. Reti di comunicazioni, navi, ferrovie, poste, cambi di valuta, modi stessi di vivere che si evolvono in modo relativamente uniforme in tutti i paesi civilizzati/industriali.

Nasce il Red book (1836) e il Baedeker (1839): si elencano le bellezze dei  luoghi, le comodità, gli accessori, i consigli e le dissuasioni. La mappa, come nel Medioevo, diventa di nuovo un luogo eterogeneo: i luoghi di cura insieme agli eremi, la visita ai musei e le sosta all’ albergo consigliato, le passeggiate e i punti panoramici: consigli su come trattare la gente, mettersi i calzini lunghi quando si sale in groppa ad un asino, il limone per non soffrire il mal di mare durante le traversate, la borraccetta, il vestiario fino alle macchine fotografiche diventano i viatici moderni. Non servono piu’ armi per viaggiare. Come nel medioevo c’ era Dio, responsabile di chi era in giro, e doveva occuparsi di lui, anche oggi si torna a non sentirsi mai soli. Nel tale albergo la sera si danza (due ore per arrivarci), nel tal altro luogo si può trovare raccoglimento (garanzie di isolamento assoluto): tutti vengono accontentati. Lo spazio viene di nuovo caricato di significati che vanno oltre la natura del luogo.

C’è un unico problema a tutto ciò; un’ unica lacuna. Coloro che desiderano il nuovo, l’ inviolato non possono più essere accontentati. Lo spazio non basta più, si rimane costretti nello spazio conosciuto e preparato. Il turismo nega se stesso proprio effettuandosi. Aprendo sempre di più l’ orizzonte del nuovo, il turismo in realtà lo rinchiude, rendendolo zona non più inviolata. Sconfitta del non essere i “primi” ad arrivare, a cui si unisce quella di poter conoscere l’ altra gente: col turismo si segna la fine dell’ ospitalità. Finchè il viaggiare fu un errare e un essere banditi vi fu sempre ospitalità ed asilo; ma appena esso divenne piacere volontario ogni porta si chiude.

In contrapposizione a questa modalità funzionale del viaggio di fine Ottocento, la letteratura  del periodo esprime un tipo di viaggio assolutamente opposto, ricco di interiorità e di sofferenza, di malinconia. Proprio perché il viaggio reale non è più un mistero, non è più né il classico percorso di formazione settecentesca né il viaggio di grande passione romantica, nella fine del secolo il viaggio letterario assolve il ruolo della crisi personale, diventa l’ immagine chiara della fuga, dell’ incapacità di affrontare la realtà, del distacco dalla situazione opprimente.

Dopo la grande tradizione ottocentesca assistiamo al nuovo romanzo dove la partenza scandisce il motivo della fuga. In Thomas Mann -come esempio- vediamo Toni Buddembrok, Adrian Leverkun, Tonio Kroeger, Gustav Eschembach… per ognuno di loro, per ogni protagonista di questo secolo “passare” la soglia, partire, distaccarsi (e in fretta) dal proprio ambiente d’ origine è una condizione necessaria ed imperativa. Attraverso Roth, Gide, Verga, Mann o Kafka si può dire che già nella prima pagina del romanzo aleggia l’ aria di una rottura, di una fuga. Il nuovo “eroe” di fine ottocento, se così si può ancora dire, viene visto sempre di schiena, da lontano, che se ne va: è partito, è fuggito subito e non ci resta che inseguirlo, corrergli dietro lungo tutto il racconto: lo sconosciuto del romanzo Verso Damasco; Zarathustra il viandante…

Nel Novecento il protagonista nuovo torna ad essere un vagabondo, colui che è sempre in giro, a caso, dappertutto, colui che non ha una dimora. (Il mondo è la sua città; da Owen, Fourier, Spengler nasce l’ idea della città-mondo che è quella del protagonista di Fame di Hamsun, Mr. Bloom di Joyce, Zeno Cosini di Svevo). Questo nuovo vagabondo non è più certo Ahasvero, Ulisse o l’ Olandese sulla sua nave ( grandi erranti che aspettano solo il momento di poter tornare): è piuttosto il vagabondo in sordina, che scantona senza essere notato, è August (Hamsun) è Tunda (Roth), è un personaggio di Pirandello, è un randagio, è uno che viaggia “al termine della notte” (Cèline), è il vagabondo escluso che tenta di sopravvivere, che vaga tra le bettole, nei porti, che tira a campare. E’ il classico vagabondo della sterminata cinematografia del ‘900.

Se nel Romanticismo vagabondare era ancora una scelta, se la Wanderung dello Sturm und Drang era un divertimento, se il viaggio di Lenz, di Muller, di Schubert dal Lust zum Wandern (smania vagabonda) si converte nel Lust zum Fabulieren (gioia di raccontare), fino a Walser insomma – ora il vagabondo di Mahler, del nichilismo, di Wolf, di Strindberg, di Gauguin, di Van Gogh,  immagine della sfiducia, diventa lo specchio del rifiuto. Doppio rifiuto, in due sensi; quello della società nei confronti del protagonista (esecrazione), e quello del protagonista nei confronti della società (ribellione). La rottura reciproca è diventata incontrovertibile.

Il viaggio del personaggio torna ad essere una meteora verso paesi lontani, i piu’ lontani. Oppure si rinchiude ancora di più nella inesorabile tela di ragno della città che si espande a tutto il mondo. In ogni caso ci si estranea dalla società, che non interessa più, che non si spera di modificare, che non si vuol più vedere, che non si vuol più sentire, stranieri della propria Patria, forestieri della propria città, ospiti nella propria casa, spettatori della propria esistenza.

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