A fine mese (30 maggio) a Roma apre il nuovo Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo. Finalmente. La gara per aggiudicare il progetto fu vinto dalla architetta irachena Zaha Hadid nel 1998. Dodici anni fa. Questa è l’Italia. Lo sappiamo, lo sappiamo bene e ci continuiamo a vivere, ma ogni volta che si inciampa in incongruenze così evidenti come un cantiere durato dodici anni per realizzare un grande edificio pubblico in cemento armato, bé, viene da sospirare e da ripetere, in stile mantra: questa è l’Italia.

In ogni caso, il Maxxi apre, evviva il Maxxi.

Il museo si compone di due sezioni autonome l’una dall’altra: una dedicata alla architettura e un’altra all’arte.

La direttrice della sezione arte, Anna Mattirolo, in un breve video ci racconta che contano di arricchire, ma in larga parte costituire la loro collezione d’arte tramite la committenza. Questa è un’altra buona notizia. La signora Mattirolo ci dice anche che hanno istituito (o istituiranno?) un premio biennale per l’arte giovane. Terza buona notizia. Non ci girerà troppo la testa, con tutte queste nuove notizie?

Per la verità, avevo letto giorni fa dell’apertura di questo nuovo spazio per mezzo delle polemiche che la mostra di apertura ha suscitato in alcuni. Essa è dedicata a Gino De Dominicis, artista marchigiano, schivo, ritroso, al limite dell’ossessione, leggo sui pochi articoli fin qui dedicatigli, morto nel 1998 (buffa la coincidenza con l’assegnazione del progetto per il museo destinato anni dopo a celebrarne la gloria) ad appena cinquantanni e poco più.

Le polemiche vertevano sul fatto che uno spazio dedicato all’arte del ventunesimo secolo si aprisse con un signore, ahimé per lui, già passato a miglior vita, anche se a rigor di logica io non ci vedo contraddizione alcuna, se non, forse, nel proclamarsi attenti alle culture giovanili e poi, per l’appunto, aprire con qualcuno che è già belle che morto (ripeto ahimé per lui).

Al di là di tutto questa cronaca, De Dominicis viene definito figura centrale dell’arte italiana del secolo scorso e questa è certamente una affermazione che precipita il cultore dell’arte contemporanea, i.e. il sottoscritto, nella disperazione per conclamata ed evidente crassa, ma anche grassa, ignoranza. Conosco poco o punto l’opera di De Dominicis.

Di corsa ho letto e visto e l’impressione è quella di una personalità divisa, scissa, tra l’amore per la pittura e il disegno (molta carta e poche tele in questa sua produzione, dicunt) e le necessità di mercato, quelle che “lo costrinsero” ad operazioni intellettuali clamorose che nulla hanno a che vedere con il pennello, i colori e lo spazio bidimensionale.

Operazione intellettuali clamorose come quella di “esporre” alla biennale di Venezia del 1972 un signore affetto da sindrome di Down in carozzella. Oppure quella di esporre una carrozza antica ospitante una mozzarella. Oppure, l’ultima, quella di deporre un enorme scheletro (24 metri di lunghezza e 4 di altezza) di Pinocchio in spazi pubblici come Piazza Duomo a Milano o, oggi, per l’appunto il MAXXI.

Le operazioni culturali, leggendone i titoli e sbirciandole in rete, mi paiono tutte profondamente intrise di ironia e satira nei confronti del mondo dell’arte. I quadri sono distaccati e romantici, tristi, tristissimi e tristerrimi, di quella tristezza che viene profonda da un pessimismo radicato che la malattia gravissima che immagino abbia ucciso a soli cinquantanni l’artista marchigiano ha, drammaticamente e tragicamente, confermato nella sua giustezza.

Fatto sta che, se devo dire la verità, forse la stanchezza non mi permette stanotte di rilevarne l’essenzialità nel percorso pittorico italiano (anche se devo ammettere che giudicare da foto su internet sia, come minimo, rischioso).

Leggo di un signore che amava stare lontano dalle passerelle (tant’è che rifiuta Documenta di Basel), ma che al contempo è a Venezia, è a Roma, Milano, certamente tirato per la giacca, ma alla fin fine non così rigido nel suo negarsi. Perché avrebbe dovuto, in effetti? Per nessuna ragione, se non per una coerenza interiore che non è un  obbligo di legge avere. Quanto poi i suoi lavori pittorici, che di quelli, come si sa, amo occuparmi, debbano ad una certa metafisica e a ricordi di pagliacci di severiniana memoria è una domanda la cui risposta lascio ad altri più esperti di me.

Certo ora che MAXXI si apre, il grande pubblico, quorum ego, potrà confrontarsi con questi lavori e giudicare se queste mie sensazioni sono corrette o, al solito, strafalcioni da dilettante allo sbaraglio.